Maggio 2021 – Dordeduh

 

Due grandi ritorni di rispettive band che da queste parti, sebbene per i più diversi motivi a differenziarle completamente da un polo estremo all’altro della possibile espressione sonora in musica nera sia per concetto che per forma, sono comunque tanto amate quanto erano attese (e anche in ciò veramente polari: la prima con un secondo disco a distanza di quasi dieci anni dal debutto, la seconda di veterani neanche troppo più attempati ma arrivati al traguardo del numero tredici a distanza di sette dall’ultimo); una sorpresa da una realtà dagli ormai sempre più fiorenti Paesi Bassi che fino all’uscita del suo secondo lavoro non conoscevamo ancora e persino un dessert a base di folklore pagano dalla Moravia meridionale.
Chi è in for the treat e per la degustazione odierna si tenga dunque forte, perché una partenza di menù che è portata principale cortesemente offerta dai maestri d’avanguardia Hupogrammos e Sol Faur con i loro Dordeduh (tali in verità che si tratti del 2000-2002, del 2006, del 2012 o del 2021) non capita -letteralmente o meno che la si voglia intendere- davvero ogni mese. “Har” è il loro secondo album, uscito ufficialmente il 14 maggio per Prophecy Productions, ed è uno di quegli sforzi gigantiformi che fermano il tempo e lo dilatano verso i rami ineffabili dell’infinito: perché da “Dar De Duh” come da “Om” sembra all’ascolto essere trascorsa tanto un’eternità come pare non essere passato nemmeno un mezzo minuto.

 

 

[…] Il salto dal debutto è enorme, e nel mezzo del balzo molto lavoro di ricostruzione è lasciato da fare all’ascoltatore senza particolari aiuti o indizi dispersi per poter tirare le fila tra i due; eppure proprio in ciò va trovato uno dei maggiori pregi di un disco coraggioso e complesso se non difficile, di una struttura possibilmente ancora più complicata nella sua grande coesione che va oltre qualunque sforzo delle due menti dei Dordeduh: non tanto nella volontà quasi dichiarata di sconfiggere etichetta e genere scavalcandone confini stilistici e paletti persino più marcatamente che in passato, bensì nella granitica coerenza di risultato che lo rende ancor più titanico e senza precedenti. “Har” è in ciò una benedizione, una fontana santificata di ispirazione purissima e di condono divino che suona come nient’altro al mondo, monumento di ricordo al globo intero e tutti coloro i quali lo abitano, con la gentilezza inimitabile dell’animo realmente poetico, che esiste la pienezza di un patrimonio cosmico, un bagaglio e lascito dentro ognuno di essi: dimenticato, troppo spesso ignorato – e che qualora il suo terreno incredibilmente fertile resti incoltivato per troppe stagioni, diventa sempre più arduo riacquistarne la grazia.”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Se uno spirito spontaneamente meditativo, dispiegatosi in scenari musicali ricchi di eleganti chiaroscuri a metà fra il folklore e la sperimentazione, non ha mai abbandonato le partiture che portano la firma di Sol Faur ed Hupogrammos, in “Har” le sensazioni travalicano una volta per tutte quelle tipiche del distintivo Black Metal transilvano, prediligendo un approccio libero e progressivo a tutto tondo: un mosaico a tinte terrose, un viaggio interiore dall’ampio respiro che ha inizio nelle pieghe cupe dell’animo e che si protende disperatamente verso la luce. Le chitarre piene, dal suono tellurico, viscerale e granuloso vanno a grattare quella impalpabile sostanza liquida fatta di riverberi ed echi dalle rifrazioni psichedeliche, in un incedere d’infinite sfaccettature strumentali e persino orchestrali, tanto in comunione fra loro che, sospese fra cielo e terra, fluiscono in un ammaliante torrente di musica eterna.”

Portentosa espressione di spiritualità musicale quella messa in campo dai Dordeduh che, tramite il loro secondo disco ufficiale “Har”, ci regalano un viaggio emotivamente travolgente, ricco di differenti atmosfere, ambientazioni e stati d’animo. La strumentazione tradizionale aiuta moltissimo nel processo di mischiare musica d’ambiente e folklore, le quali giocano un ruolo di complementarità con una componente Black Metal che vive sospesa tra sprazzi di progressione e avanguardia, mostrando un senso melodico che non perde mai di vista l’obiettivo della composizione riuscendo ciononostante a coniugare un enorme output di strumenti (voci comprese) in un sound d’ampiezza sempre coesa e affascinante all’ascolto. Un disco lungo, denso, potenzialmente ostico al primo impatto ma che tende ad aprirsi molto con gli ascolti, soprattutto considerando il modo in cui si entra in confidenza con ogni micro-dettaglio e si percepisce meglio il contrasto tra i diversi tipi di cantato ed il frangente esatto dell’album in cui ci troviamo.”

“Nove anni pieni: tanto ci è voluto ai Dordeduh per pubblicare il loro secondo full-length “Har”. Una lunga e interminabile attesa per gli estimatori, specie a fronte del loro primo album “Dar De Duh” che fin dalla sua pubblicazione ha lasciato un segno indelebile nel genere. Oggi, a nove anni di distanza da quello sfolgorante debutto, tutto il retaggio di Hupogrammos e Sol Faur, l’altro complementare pezzo dell’anima originaria dei Negură Bunget, risplende più che mai tramite le otto tracce che compongono il disco: un viaggio sonoro mistico e spirituale attraverso la concretezza volatile dei Carpazi sulle ali di una prospettiva sonora di Black Metal atmosferico, ammantato di folklore e di progressismo stilistico-compositivo, con uno sguardo rivolto al passato e più d’uno al futuro. Bentornati.”

Tra fitte polveri di fuoco serrato che assumono la macabra forma di un fungo atomico, “Eight Headed Serpent” degli Impaled Nazarene (semper fidelis Osmose Productions) riporta finalmente il quartetto finlandese ai livelli dei suoi migliori capitoli discografici ed in prima linea, con tutta la furia omicida di cui sono intrisi i proiettili più veloci e con tutta l’idiosincrasia di cui sono capaci, nella guerra nucleare contro l’uomo. They are from Finland – you can fuck off!

“Volgare, sguaiata, squisitamente autocelebrativa, a tratti sconclusionata e sempre magnificamente sprovvista di freni, ossessiva, sinceramente diabolica, fobica, insofferente misantropica oltre ogni limite, feroce più che mai e in sostanza inarrestabile: la brigata Impaled Nazarene in “Eight Headed Serpent” senza nemmeno girarci troppo attorno dà alle stampe il suo album più forte e completo dai tempi di “Pro Patria Finlandia”, superando persino i singoli fasti di più d’un disco della seconda metà degli anni ’90 e del primo lustro ’00. Ullgrén firma la sua prestazione e scrittura più avvincente di sempre alle sei corde di sortilegi magici da quel “Manifest” che nell’ormai lontano 2007 lo ha catapultato all’interno dei nostri anticonformisti preferiti (innestandovi questa volta persino una certa inedita lentezza di cui altrove è invece naturale portavoce, nella eccelsa e decisiva conclusione “Focault Pendulum”), e travolti dalle tredici stoccate d’empia negromanzia una più gustosa dell’altra non resta che testimoniare il ritorno trionfale dell’Anticristo nei panni della serpe ad otto teste nella sua rovinosa, inarrestabile caduta sulle sorti dell’ignobile, mutilata umanità – grandioso come non lo era da ormai parecchi anni.”

Gli assalti frontali carichi dello sprezzante menefreghismo tipico della legione finlandese di Oulu si fanno di nuovo saettanti, ispirati, travolgenti: fra i dardi infuocati sparati ai mille all’ora di “Triumphant Return Of The Antichrist” o “Metastasizing And Changing Threat” e le schitarrate Heavy sporcate dal latrato di Mika Luttinen in pezzi come “The Nonconformists”, ogni capitolo di “Eight Headed Serpent” è caratterizzato da sfumature distintive e dal grande appeal, che fanno subito breccia pur riducendo all’osso la componente maggiormente melodica seguita nei primi 2000 e preferendo immergersi in una riscoperta di quello spirito di rumorosa e scanzonata restaurazione post-“Suomi Finland Perkele” pur incanalato con una sfacciataggine e una violenza che rifuggono qualsiasi accusa di lavoro di mestiere. Certo, gli Impaled Nazarene flirtano con quel mondo di fare da ormai da più di due decadi, ma con il suono dinamico e il riffing potente e incalzante di “Eight Headed Serpent” si scrollano di dosso una veste che si era fatta ormai pesante in “Vigorous And Liberating Death” (2014), riassumendo quello smalto unico nell’incanalare la propria ultraviolenza di cui sono maestri e che non può nel modo più assoluto lasciare indifferenti.”

Una scarica di pura adrenalina senza pari quella regalatici dai veterani Impaled Nazarene con il nuovo “Eight Headed Serpent”, disco come al solito perfetto per chi cerca una mezz’oretta di pausa cerebrale totale attraverso produzioni oltre al limite della velocità (con tanto di splendido esercizio di stile nel finale attraverso la melmosa “Foucault Pendulum”). L’album scorre con grande naturalezza tra sudori freddi, sonorità Crust Punk e Hardcore contornate da un Black Metal puro e seminale che a tratti ricorda nei modi persino le origini del genere sotto forma di Thrash registrato male e suonato peggio – qui invece perfettamente calzante i panni dei giorni nostri. Semplicemente perfetto per chi ha bisogno di quel tocco di beata ignoranza e cafonaggine per andare avanti giorno dopo giorno.”

“Alle ultime tre fatiche in studio, forse divergenti nelle rispettive pecche ma accomunate dai risultati anonimamente incolori, “Eight Headed Serpent” risponde facendo una cosa sola e facendola maledettamente bene: cartellare a destra e a manca con una cattiveria che, viste le simili fattezze sonore, non sentivamo dai gloriosi lavori di fine anni novanta. Di sicuro la spregiudicatezza Hardcore si è un po’ affievolita col tempo, assieme all’ugola allucinata e alle lyrics da arresto preventivo di sua san(t)ità Mika Luttinen, ma d’altra parte il Black Metal sotto metamfetamina degli Impaled Nazarene coinvolge come e anche più del solito nelle sue pochissime pretese che non siano distruzione di tutto, tutti, e nell’elevatissimo divertimento all’ascolto – e dopo sette anni diamine se questi quattro scoppiati non ci erano mancati: Suomi vitun Finland – Finland vitun perkele!”

“Che dire sugli Impaled Nazarene che non sia già stato detto? Probabilmente nulla, ma è proprio in periodi come questi che servono certezze di granito: quelle che i più ovvi pazzi di Finlandia non tardano a consegnare con certezza assoluta ad ogni loro nuovo album senza risultare stanchi o triti. “Eight Headed Serpent” suona come più di trenta minuti di pura esaltazione e cafonaggine sonora puntualmente riscoperta in tredici brani condensanti tredici anni, con la voce del mattatore Mika Luttinen sempre sugli scudi e supportata da chitarre impazzite, batteria che trita le ossa in ogni frangente ritmico e in cui non finiscono per mancare nemmeno alcuni momenti più sulfurei, che donano ancor più vitali sfaccettature al tutto. Una garanzia totale.”

“Zwart Vierkant” dei neerlandesi Grey Aura, opera complessa ma nemmeno particolarmente difficile uscita per la giovanissima quanto promettente Onism Productions, adeguatamente curato in quasi sette anni di attenta scrittura da quel doppio album di debutto che, tra il 2014 ed il 2016 della riedizione di Blood Music, passò ingiustamente inosservato. Se il mese scorso i Vreid di “Wild North West” vi sono sembrati audaci, come del resto a noi, sappiate che il duo di Utrecht ci ha accompagnato un saggio.

“Liquido astrattismo sonoro ed impressionismo a regola d’arte per chi è capace di perder l’anima osservando, indipendente e stralunato, in religioso silenzio, l’enigma asurdo di un criptico, insignificante quadrato nero a sua volta riflesso di -nonché sconosciuto portale per- qualunque stramberia la mente dello spettatore voglia includervi e vedervi animata come su una pellicola in movimenti convulsi, febbrili, veloci come argento vivo ed estremi come tutto l’apparato percettivo su cui l’astuto e camaleontico “Zwart Vierkant” si erge trionfale: tra brani incredibili (“El Greco In Toledo” e “Parijs Is Een Portaal” su tutti), tromboni e trombe, nacchere ed esotiche follie strumentali dal mondo intero che guardano nello specchio della propria personalità sorretti dalle spalle dei più alti giganti dell’avanguardia e della sperimentazione nel Black Metal del nuovo millennio, l’unico limite dei Grey Aura è quello di un’immaginazione fortunatamente sconfinata.”

Quella di “Zwart Vierkant” è una narrazione fumosa, distorta e alterata, che nel voler trasmettere una febbrile attrazione per l’astratto finisce per esplicitarsi in un figurativismo quasi descrittivo per la capacità di dipingere luoghi come la musica fosse tempera, ambientazioni e umori con una commistione di cromie che si susseguono in modo netto ma fervidamente immersivo. Tra un sound tanto fresco e moderno quanto legato a filo doppio a quell’avanguardia norvegese visionaria e senza schemi di Ved Buens Ende e Dødheimsgard e una struttura del disco che procede per atti improvvisi a ricordare con le dovute proporzioni la Polonia di Furia e Kły, i Grey Aura sciorinano con estro e una buona dose di ambizione un songwriting di gran livello: la verve discontinua e schizoide non esclude una solida visione d’insieme, capace di accogliere e integrare tirate furiose e stacchi dal gusto Jazz, così come fiati che virano dalla drammaticità più tonante al caos da fanfara, in una rigida e continua escursione fra tonalità più calde e nuance bieche e gelide.”

Arte concettuale espressa in musica è ciò che ci si deve aspettare dal secondo disco degli olandesi Grey Aura, autori di un Black Metal d’avanguardia che gioca molto sulla rimodulazione del concetto di musica estrema attraverso una moltitudine di effetti e stranezze sonore (le chitarre spagnole sono una chicca di cui non sapevamo di aver bisogno in un disco del genere). Il carattere artistico-caotico che contraddistingue le composizioni risulta naturale e privo di forzature, per questo motivo durante l’ascolto di “Zwart Vierkant” si resta coinvolti nel suo vortice di particolarità senza venire sopraffatti da elementi fini a se stessi e resi complicati giusto per il gusto di apparire complessi. Spicca anche in alcuni momenti un senso di teatralità che ben si sposa con l’immaginario proposto dai Grey Aura confezionando un prodotto assolutamente valido e che con simili fattezze mancava sulle scene da un po’ di tempo.”

Una nomina singola infine per i Dark Seal dalla Repubblica Ceca che si autoproducono “Stvoření Světa” raggiungendo livelli di cura e bellezza delle composizioni che, nella loro comunque non nutritissima carriera, sono fino a questo punto assolutamente inediti: pensieri pagani rivolti alla creazione di un mondo e prestati non alla sola quadratezza ma al tessuto screziato, policromatico, magico, compatto e nondimeno brioso.

Attivi da più di dieci anni, giungono al traguardo del quarto full-length con un lavoro notevole i cechi Dark Seal: con il loro “Stvoření Světa”, i quattro hanno tutte le carte in regola per farsi finalmente riconoscere ben oltre la scena nazionale scossa con “Země Našich Předků” nel 2019, proponendo un classico e fiero Pagan Black Metal in cui le chitarre sono sì assolute protagoniste, come da tradizione stilistica, ma impreziosito da una sezione atmosferica epica e di solenne personalità dove le tastiere creano passaggi sognanti e maestosi, quasi come il disco fosse la colonna sonora di un film fantasy prestato a sua volta alla musica dura; perché in effetti il risultato dello scorrere degli otto curati brani è proprio una sorta di rapimento analogo a quello di una pellicola, o di una lettura di tale natura, in cui l’ascoltatore è trasportato e perso in epoche lontane e in luoghi mitici da cui non vorrebbe mai tornare.”

E perché farlo, in fondo? Per quale motivo fare ritorno alla realtà nuda e cruda lasciata a posteriori quando in essa si può anche portare proprio quel variopinto mondo regalatoci anche questa volta dai quattro di oggi? Per coloro i quali il viaggio in queste nuove terre suonasse comunque troppo breve (o mancasse anche un pizzico di Norvegia che nei solchi di alcuni selezionati artisti male non sembra mai fare), il nostro Feanor consiglia spassionatamente anche il rientro su scaffale dei Djevel, “Tanker Som Rir Natten” uscito al solito per Aftermath Music e che li porta ad esplorare ulteriormente la strada aperta dai due brani più lunghi del precedente “Ormer Til Armer, Maane Til Hode” (2019), comprensiva di titoli dalla lunghezza accademica.
Ma l’estate che solitamente vorrebbe essere il momento di riposo discografico per eccellenza quest’anno sembra farsi già calda per più d’un motivo (almeno tre di assoluto rilievo in fila, per chi vi tiene compagnia su queste pagine, su qualunque altro: Wolves In The Throne Room, Thyrfing, Peste Noire… Tutti nel giro di soli dodici giorni tra la fine di agosto e l’estremo inizio di settembre!), e mentre giugno sta sicuramente procedendo a rilento rispetto agli scorsi mesi non si può invece che attendere con sincera curiosità diverse prove che già in luglio faranno presumibilmente faville. Dall’incanto acustico dei Musk Ox che per “Inheritance” ci hanno fatti attendere sette anni pieni dallo splendido “Woodfall”, ai super-finnici Marras (che tra debut e singoli hanno attirato l’attenzione di più d’un orecchio) o ai Lykhaeon (per gli affezionati al circolo H.U.C.) passando per dei sospettissimi Wizardthrone – per non parlare dei Felled che da quando si chiamavano Moss Of Moonlight (si consiglia il recupero, qualora questo occorresse, degli ancora squisiti “Seed” e “Winterwheel” rilasciati tra il 2012 ed il 2013) ne hanno fatti passare quasi otto ed una parziale reincarnazione al fine di farci assaggiare “The Intimate Earth”, le premesse per assaporare qualcos’altro di prelibato durante le più ventilate serate trascorse nei pressi del rifugio naturale di scelta ci sono già tutte…

 

Matteo “Theo” Damiani

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